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L’ingegnere Jürg Conzett davanti a una delle sue opere recenti: la passerella ciclopedonale Pardisla (2016/2017), che collega Coira e Haldenstein (GR). Foto: Marion Nitsch

«L’ingegneria si trovava in un vicolo cieco»

Colloquio con Jürg Conzett

Testo: Marco Guetg, giornalista
Foto: Marion Nitsch, fotografa

L’ultimo numero della nostra rivista «Heimatschutz/Patrimoine» è dedicato precisamente alla cultura della costruzione degli anni 1975-2000, vista attraverso gli occhi di persone legate a discipline diverse quali l’architettura, la tutela dei beni culturali, l’architettura del paesaggio e l’ingegneria. La scelta dell’argomento è legata all’uscita della nuova pubblicazione «Le opere più belle 1975–2000». 

Jürg Conzett, contitolare dello studio di ingegneria Conzett Bronzini Partner di Coira, oltre a essere uno dei più importanti costruttori di ponti in Svizzera, ha dato contributi notevoli anche nei campi dell’ingegneria edilizia e stradale. In questa intervista, offre uno sguardo retrospettivo sul suo percorso, sul suo pensiero e sull’edilizia tra il 1975 e il 2000.
 

Signor Conzett, lei ha studiato ingegneria civile, dapprima al Politecnico di Losanna, tra il 1975 e il 1977, e poi a Zurigo, fino al 1980. Che cosa ricorda di quegli anni?

Sul piano pratico è stata una formazione eccellente. Abbiamo studiato e esercitato a fondo le materie classiche, come la statistica e la geometria descrittiva. È un aspetto che ho apprezzato molto, ma è anche vero che ci formavano secondo un modello completamente predefinito. Dovevamo diventare esecutori di cose decise da altri. Ben presto ho capito che mi mancava qualcosa.

In che senso?

Le faccio un esempio. Ci avevano incaricati di realizzare una torre sulla riva di un lago con condizioni di terreno molto eterogenee. Anziché procedere con i calcoli statistici, io mi chiedevo se non fosse più intelligente non costruire una torre in quel luogo specifico. Qual è stata la reazione? Sono scoppiati tutti a ridere. Eppure sono interrogativi che mi sono posto durante tutta la carriera. Sono convinto che si debba costruire solo dopo che sono state poste tutte le domande fondamentali.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Al Politecnico di Zurigo ha studiato con Christian Menn, considerato un vero «guru dei ponti». Lui è riuscito a colmare la lacuna?

Più attraverso la sua pratica che con l’insegnamento. Si pensi al viadotto di Felsenau a Berna (1975), al Ganterbrücke sulla strada del Sempione (1980) o ai ponti ad arco sulla A13: sono opere magistrali! Menn era un creativo. Eppure anche a lui mancava una vera visione d’insieme.

Come descriverebbe la visione dell’ingegneria degli anni Settanta?

Un lavoro parsimonioso, sobrio, tecnico, eseguito con mezzi limitati. Niente di stravagante… Sono tutte caratteristiche tipiche del periodo tra il 1975 e il 2000 in generale. Ma mi rendo conto che durante gli anni dei miei studi ho vissuto gli ultimi aneliti della visione tradizionale della professione.

Qual è un’opera esemplare di questo approccio «tradizionale»?

La Sihlhochstrasse a Zurigo, costruita tra il 1969 e il 1973. È un ottimo esempio dello spirito degli anni Settanta, quando ci si concentrava sui problemi del traffico, senza porsi molte domande sull’impatto urbanistico o sociale. Va comunque detto che si tratta di un ponte elegante; un vero e proprio monumento ingegneristico. Quando vedo che oggi nell’animato quartiere del comparto Sihlcity la gente durante la pausa pranzo si siede all’ombra della Sihlhochstrasse, devo constatare che si è instaurata una certa serenità intorno a quest’opera a suo tempo aspramente criticata.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Poi, all’improvviso, la visione tradizionale è stata superata. In che modo si può illustrare la svolta?

C’è stata la costruzione della stazione di Zurigo Stadelhofen di Santiago Calatrava negli anni Ottanta. Tutt’a un tratto le cose erano cambiate. Calatrava ha insistito sull’aspetto formale, ha puntato sull’opulenza, sull’espressività, un pensiero scultoreo, analogie organiche e persino un certo populismo.

Anche questo controesempio secondo lei può essere considerato un monumento?

Assolutamente! Negli anni Settanta e Ottanta, con la sua impostazione tradizionale l’ingegneria si trovava in un vicolo cieco. Questo approccio stravagante ci ha catapultati in una nuova direzione, ha fissato un nuovo standard di riferimento.

Qual è la situazione oggi?

Ci troviamo da qualche parte tra il sobrio-spartano e l’opulento. Ma per fortuna, rispetto a un tempo, ora si tiene molto più conto della sostenibilità e dell’ambiente circostante. In linea generale, i compiti sono diventati più complessi. Chi costruisce ponti oggi deve prendere maggiormente in considerazione l’opinione dell’utenza e aspetti come il volo degli uccelli o i loro periodi di riproduzione.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Nel 1981, dopo gli studi, è approdato da Peter Zumthor, dove ha svolto un praticantato seguito da sei anni di lavoro come dipendente. Che cosa le ha dato questa esperienza?

Quello che avevo cercato sin dai tempi degli studi! Da studente mi piaceva leggere riviste di architettura, perché trattavano argomenti che ritenevo importanti anche per un ingegnere. Peter Zumthor è un architetto-artista, nonché un acuto pensatore che lavora in modo molto sistematico. Riflette sulle strutture d’insediamento e sui materiali, tiene conto del contesto storico e cerca risposte approfondite a questioni fondamentali: «che cosa vogliamo?», «ci sono altri modi per farlo?». Da Zumthor mi sentivo compreso.

Come si svolgeva il suo lavoro di ingegnere presso lo studio di Zumthor?

C’era molta apertura. Nel 1978 Zumthor aveva vinto il concorso per l’ampliamento della scuola di Churwalden, la sua prima opera pubblica di una certa entità. Il mio primo compito consistette nel disegnare una prospettiva interna da consegnare all’Assemblea comunale. Grazie alla mia formazione e alla mia passione per il disegno feci un buon lavoro. Poi elaborai delle proposte per le strutture portanti, proposte da discutere con gli ingegneri esterni. Non dovevo fare calcoli. Si trattava più che altro di sviluppare idee. Queste sono poi state applicate, per esempio per il tetto della palestra, con gli elementi portanti longitudinali. A prima vista, la direzione portante sembra paradossale, ma nel complesso dell’opera presenta notevoli vantaggi. Anche i fratelli Grubenmann avevano fatto qualcosa del genere due secoli prima. Tutt’a un tratto ero diventato il collaboratore di progetto di un architetto. Tra l’altro, nel corso del mio iter universitario il termine «progetto» non l’avevo mai sentito nominare.

Come procede quando deve «progettare» un ponte?

Il primo passo è visitare il sito, osservare e se possibile fare misurazioni per conto mio. Così spesso scopro dettagli che possono essere rilevanti per l’insieme dell’opera: riferimenti relativi alle costruzioni preesistenti o materiali che rivelano qualcosa sulla geologia locale. È importante conoscere la topografia, come pure l’opinione dei geologi, degli specialisti nella gestione dei corsi d’acqua e dei botanici. In tal modo emerge un’immagine del luogo e si giunge alla questione fondamentale: è questo il punto giusto in cui costruire il ponte previsto?

E dopo tutti questi accertamenti entra in campo la figura del costruttore?

Più che un costruttore, io mi considero un pensatore che reagisce alle cose viste o studiate. Quando si progetta un ponte, si cerca un pensiero concettuale di fondo, una risposta che fughi tutti i dubbi. Mi è già capitato di paragonare questo modo di procedere a quello di un detective: non si possono risolvere i singoli problemi uno dopo l’altro. Uno Sherlock Holmes deve raccogliere tutta una serie di indizi per poi creare una storia e accertarsi che funzioni. Il nostro lavoro è uguale: è un tentativo di elaborare un’idea che soddisfi l’insieme dei requisiti precedentemente formulati.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Torniamo alle grandi opere infrastrutturali.

In realtà preferirei rivolgere lo sguardo alle piccole opere infrastrutturali: ai cavalcavia e ai sottopassaggi, ai muri di sostegno. Negli anni Settanta, per i progetti di questo tipo non esisteva alcun tipo di convenzione. Per questo venivano – e vengono tuttora! – spesso realizzati male.

Sta criticando il fatto che per gli ingegneri queste opere minori mancano d’interesse e quindi non vengono realizzate con la dovuta cura?

Esatto. Il muretto di sostegno è troppo corto? Non c’è problema: basta attaccar là qualche sasso per prolungarlo. Purtroppo di lavori sciatti se ne vedono moltissimi. Eppure queste opere secondarie sono quelle che gli ingegneri realizzano più spesso.

Quindi che cosa propone?

Nel 1992, in qualità di membro del comitato della sezione grigionese di Patrimonio svizzero, ho promosso un convegno sulla costruzione di muri di sostegno. Volevo mostrare esempi virtuosi: i passi dello Julier o del Lucomagno, dove la strada è stata inserita nel paesaggio con grande cura, oppure il modo in cui un tempo i muri venivano realizzati come vere opere di accompagnamento. Alla fine del convegno, l’allora responsabile dei manufatti presso il Cantone dei Grigioni, Heinrich Figi, mi aveva pregato di preparare un piano per la realizzazione dei muri del tratto stradale tra Thusis e Tiefencastel. Il nostro studio ha fatto il punto della situazione e così è nato un piano che dalla fine degli anni Novanta è stato attuato in modo sistematico. Sulla tratta che valica il Passo del Forno lo si nota bene. Per me questo piano è un bell’esempio di come sia possibile ottenere un forte impatto estetico con interventi tutto sommato modesti.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Nel 2010, lei ha coallestito il padiglione svizzero della Biennale di Venezia con fotografie di ponti presentati come beni culturali. Il suo intento era quello di sensibilizzare all’aspetto artistico dell’ingegneria. Da allora sono passati tredici anni. È cambiato qualcosa?

Non c’è dubbio. Prima del 2000 i concorsi per la realizzazione di ponti erano molto più rari. Un aspetto che mi stava a cuore era che venissero presentati modelli tridimensionali e non semplici rendering. In molti concorsi lo si è fatto. Le FFS hanno preparato delle linee guida per i ponti che non sono incentrate sulle opere di grandi dimensioni, bensì su costruzioni più piccole, che spesso passano inosservate.

Oggi gli architetti non di rado cercano la collaborazione di un ingegnere sin dalla prima fase di progettazione. Succede anche il contrario?

Negli ultimi anni, in Svizzera si è creata una dinamica molto vivace in questo senso. La costruzione di ponti, per esempio, è ormai un lavoro di squadra al quale contribuiscono con le loro idee architetti, architetti paesaggisti, artisti…

Di tanto in tanto, anche le opere realizzate tra il 1975 e il 2000 necessitano di lavori di ristrutturazione. Qual è un esempio virtuoso?

Lo stadio del ghiaccio di Davos, con la sua impressionante struttura lignea, è un’opera del 1979 dell’ingegnere Walter Bieler e dello studio di architettura Krähenbühl. Qualche anno fa lo si è dovuto adeguare alle nuove norme, risistemarlo laddove erano state fatte delle aggiunte e apportarvi migliorie strutturali. Il cantiere è stato assegnato attraverso un bando allo studio di architettura Marques e al nostro. L’intervento è stato condotto con grande rispetto per la sostanza edilizia esistente.

Qualche volta, le costruzioni esistenti vengono adattate per una nuova destinazione.

Succede sempre più spesso. Ci sono edifici che sono stati concepiti per uno scopo molto specifico e che non rispondono più alle esigenze odierne, per esempio l’ala di un reparto di un ospedale. Che farne senza stravolgere completamente la struttura? Il più delle volte bastano pochi adeguamenti per trovare soluzioni originali orientate al futuro. Capita però di dover procedere, pur a malincuore, a una demolizione per poi costruire qualcosa da zero. L’importante è non reagire in modo impulsivo. Occorre studiare a fondo tutte le possibilità, valutarne bene i vantaggi e gli inconvenienti, e attribuire alla continuità, in tutte le sue sfaccettature, l’importanza che merita.

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Colloquio con Jürg Conzett. Foto: Marion Nitsch

Secondo lei, qual è il ruolo che dovrebbero assumere gli ingegneri? Potrebbero dire: voi progettate e noi facciamo sì che l’opera stia in piedi.

È un atteggiamento ormai superato. Con tutti i fattori in gioco, gli ingegneri non possono rimanere fuori dal processo di pianificazione e costruzione. Si pensi alle esigenze della società, alla gestione responsabile delle risorse, alla tutela dei beni culturali o all’obiettivo, tutt’oggi valido, di ottenere il massimo risultato con mezzi limitati. Sono tutte situazioni che richiedono la partecipazione degli ingegneri.

Per concludere, può menzionare due opere particolarmente notevoli del periodo tra il 1975 e il 2000?

Il Voltaschulhaus a Basilea, un progetto degli architetti Miller & Maranta a cui ho collaborato come ingegnere è secondo me un progetto significativo. La palestra è sorta sul sito di un vecchio deposito di carburante, e sopra di essa si è costruita la scuola. In tal modo si è evitato lo spreco di spazio e la soluzione statica ha permesso di fare a meno di piloni e travi di sostegno nonostante l’ampia campata: è una costruzione pura, ottenuta a partire dalle pareti e dal soffitto, che servivano in ogni caso. Si tratta di una sintesi tra architettura e arte ingegneristica che mostra com’è possibile riutilizzare in modo intelligente una struttura preesistente. E poi c’è il ponte di legno di Murau (in Austria), per il quale ho collaborato molto intensamente con gli architetti Marcel Meili e Markus Peter. È un ottimo esempio di discussione reciprocamente arricchente tra le discipline.

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Heimatschutz/Patrimoine 4/2023: Die neue Generation Baudenkmäler

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Nuova pubblicazione: «Le opere più belle 1975–2000»

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